When you think of love, do you think of pain?

Sophie & Ezekiel

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    »Damien von Hale


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    Quando Sophie asserì di essere stata a Berlino durante la seconda guerra mondiale, Damien la guardò incuriosito.
    «Oh, il mio padrone rispecchia benissimo la sua città » rispose Sebastian, divertito. Almeno lui si stava divertendo, pensò lo scienziato, alzando un sopracciglio.
    «Che coincidenza, ero anche io a Berlino in quegli anni. Lavoravo come medico» disse Ezekiel, osservando attentamente la donna che gli sedeva al fianco.
    «Coincidenza o destino?» intervenne Sebastian.
    Il che confermò la convinzione, nel mutante, che il suo maggiordomo sapesse qualcosa. O che, quantomeno, avesse una pista su cui lavorare. Se conosceva il vampiro che, così fedelmente, lo seguiva, c’era un piano preciso nella sua testa.
    «In realtà è stato un puro caso, al contrario di quanto si potrebbe pensare. Stavo cercando una cura per il vampirismo, mi ero convinto di potercela fare. Così recuperai alcuni frammenti di un dente di vampiro e mi diedi allo studio dei corpi che i miei genitori, entrambi cacciatori, mi portavano in casa. Erano convinti che avrei potuto farcela ma..» sospirò, abbassando lo sguardo.
    Se si concentrava, poteva vedere il sangue di Aurore sulle sue mani.
    «Forse potremmo concentrarci su argomenti più piacevoli, con una bella donna con noi»
    La macchina si fermò davanti casa von Hale, impedendogli di cercare di capire cosa frullare nella mente di Sebastian. Ezekiel, memore della buona educazione, scese dalla macchina e aprì la portiera personalmente all’Angelo Caduto, offrendole una mano perché ella potesse scendere dalla macchina.
    «Spero, signorina Carstairs, che le piaccia il the all’inglese. Dal mio punto di vista, è una tradizione che non dovrebbe perdersi» disse Sebastian, sorridendo cordiale, mentre Damien von Hale chiudeva la portiera della macchina. «Lascio che sia il mio padrone a portarla nella sala del the, io parcheggierò la macchina» annunciò con un breve inchino, sparendo, veloce, rapido ed efficiente, dalla loro vista con la vettura che li aveva condotti lì.
    Ezekiel sospirò. Non era mai stato bravo, con le persone: ma, tuttavia, quella non era una persona qualsiasi ma un Angelo Caduto.
    «Entriamo?» chiese, porgendogli il braccio con un sorriso timido. Le avrebbe mostrato un po' i quadri che ornavano casa von Hale, prima di condurla alla sala da the: Ezekiel amava quelle pitture, quelle sculture. Erano parte di sé stesso, parte del passato che lo avevano portato ad essere quello che era.


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    «
    Coincidenza o destino?» domandò Sebastian.
    Domanda proverbiale, avrebbe commentato Sophie, pensando alla situazione in cui si era cacciata, quella mattina, in modo del tutto inaspettato.
    Non aveva mai adorato l'auto, come mezzo di trasporto. Era soggetta a sobbalzi che non erano salutari per la propria schiena, per questo aveva sempre preferito il treno o, alternativamente, l'aereo. Le ricordava la sua capacità di volare, oramai perduta da tempo, purtroppo, essendo le sue ali ciò che le mancava di più.
    «Avete continuato a cercare la cura?» domandò dunque la ragazza, dalla tempra curiosa, benché imprigionata in centinaia di gabbie di tempo, società, abitudini antiche che non si era strappata di dosso. Se fosse stato per lei, sarebbe rimasta ferma nell'ottocento.
    «Non è necessario mutare argomento solo a causa della mia presenza, Mr. Duvall. Ho visto e sentito cose indicibili, sin dalla mia nascita» soggiunse senza un velo di ira od irrequietenza, ponendo in discussione fatti reali. Ed aveva una memoria vivida, vividissima.
    Una volta si era persino recata da uno stregone, per chiedergli se fosse possibile cancellargliela, farle dimenticare ogni cosa. E lui le aveva detto di sì, le aveva detto che, però, avrebbe scordato tutto, senza "selezionare" alcun ricordo. Così lei, con quella fiala purpurea fra le mani, aveva esitato ed esitato. Alla fine l'aveva buttata.
    «Ho visto il male più assoluto e la luce più pura. Potete parlare in libertà, perlomeno se a voi fa piacere» aggiunse, rivolgendosi stavolta ad entrambi.
    Fu allora che Sebastian accostò nei pressi di una tenuta che non aveva molto a che vedere con quelle londinesi o della campagna inglese, le sue brughiere, ma era altrettanto bella ed affascinante, forse non così antica. Scese, come scortata, dall'auto, per poi guardarsi attorno discreta.
    Sophie si ritrovò il signor Von Hale poco distante e, per chissà quale spirito divino, quella volta non sobbalzò per un soffio, per quanto vagamente trasalita. Avrebbe dovuto abituarsi, per evitare di sembrare una creatura troppo fragile, elemento che l'avrebbe fatta uscire di senno. L'unica cosa che si era ripromessa era di restare integra, salda come una roccia, per sempre.
    «Prima.. vorrei mostrarvi una cosa.» disse Sophie, sfilandosi dal collo una collana dorata che portava sempre con sé, dal ciondolo ovale, simili a quelle che non si vedevano da secoli, cesellato, prezioso solo per il tempo che sembrava raccontare, quel genere di gioielli che avrebbero potuto contenere una piccola fotografia.
    «Questo era Edward» aggiunse, porgendogliela affinché lo aprisse e vedesse il suo amore perduto da tempo, per fargli capire che non era pazza, seppure sarebbe potuto anche sembrare ad un occhio esterno. Non aveva mai permesso, da decenni, a nessuno di guardare quello scatto, uno dei primi, quando ancora si parlava di fotografia come la nemica dell'arte pittorica nel mondo.
    A Sophie venne quasi da sorridere.
    Subito dopo chinò il capo.
    «Quando volete, possiamo entrare.» soggiunse quindi, avvicinando un po' titubante il braccio al suo, sino a cingerlo con calma. Aveva la mano ferma, ma ancora non credeva che fosse possibile instaurare quel genere di contatto.

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    Avete continuato a cercare la cura?.
    Era, quella una domanda certamente legittima: Damien si prese un momento per rispondere, valutando bene le parole con cui farlo.
    Aveva capito che Sophie Carstairs fosse una creatura particolare: non era solo la sua Natura e nemmeno la sua nascita. Era proprio il suo carattere a renderla quasi unica : la sua curiosità, mascherata dalla sua educazione che lo avvolgeva e lo stuzzicava.
    «Vorrei dirle di si, ma la realtà era che questa ricerca era troppo presuntuosa. Inoltre, condurre questi studi mi è costato tanto, troppo. Ho interrotto il tutto circa centotrenta anni fa» rispose.
    Sebastian rimase in silenzio ed Ezekiel sapeva, sapeva che avevano pagato entrambi un prezzo troppo alto, quasi ingiusto: ma sapeva anche che, benché avesse avuto il suo perdono quasi un secolo prima, il maggiordomo continuasse ad incolpare per aver rovinato la sua vita. Ma il problema era che lui ed Aurore non sarebbero mai potuti finire insieme, dato che non era mai stato un distinto giovanotto amante degli affari, ma uno studioso.
    Rimase in silenzio, ascoltando parlare la signorina senza interromperla. Continuò a guardare fuori dal finestrino la città che sfrecciava sotto i suoi occhi.
    Sebastian accennò un sorriso cordiale, meno entusiasta dei precedenti.
    «Non lo metto in dubbio, Miss, ma ciò di cui sta chiedendo delucidazioni è una delle ferite che sia io che il mio padrone condividiamo» rispose, cordiale.
    Ezekiel continuò a restare in silenzio. Avrebbe potuto, forse voluto, dire molte cose, ma il sorriso di Aurore lo ferita come nemmeno un coltello avrebbe potuto mai fare ed egli soccombe a stanco, sotto quegli attacchi. Un giorno, si era detto, la dimenticherò.
    Ma quanto era, ancora, lontano quel giorno?
    Arrivati alla villa, lo scienziato si avvicinò all’Angelo Caduto, offrendole il braccio per condurla in casa. Tuttavia, Sophie parve esitare per un momento: si sfilò, infine, un medaglione dal collo e glielo porse, aperto, in modo tale che Ezekiel potesse vedere quanto raffigurato all’interno.
    Sussultò appena.
    Era impressionante , la somiglianza tra lui e quell’Edward ritratto nella foto: certo, quest’ultimo indossava una divisa da soldato ed era sbarcato e coi capelli lunghi, ma era come guardarsi allo specchio.
    La guardò comprensivo, restituendo il gioiello.
    «Mi dispiace» disse onestamente. Sapeva che non era colpa sua, quindi cercò di spiegarsi. «Non volevo darle l’impressione di non credere alla sua storia. Le credo davvero. È che temo che la mia vicinanza possa farle del male.. se è Caduta per amore di un uomo che mi somiglia così tanto, non credo che lei sia esattamente a suo agio. Io non lo sarei, quantomeno»
    Ma poi, un particolare saltò alla sua mente.
    Edward, Edward, dove aveva sentito quel nome.. beh, era piuttosto comune, c’era da ammetterlo, ma Ezekiel sapeva bene che se era rimasto impresso nella sua memoria, un motivo c’era: fu quando pensò ai vecchi appartamenti della madre, che egli aveva mantenuto intatti, che gli sorse il ricordo.
    Ma certo!
    «Ricordo dove vi ho vista» disse, concitato, conducendola in casa. «Mia madre aveva sempre con sé questo ritratto di una giovane fanciulla, firmato da un certo Edward. Non mi ha mai voluto dire chi fosse il pittore né quale significato avesse, ma suppongo che potremmo scoprirlo a breve »
    Salirono le scale, girarono un corridoio. Ezekiel tirò giù la maniglia ed ecco la camera della madre, in puro stile ottocentesco, una delle pochissime parti della casa rimaste intatte, forse restaurate solo per l’incombenza del tempo.
    Ed il ritratto era proprio davanti a loro.
    C’era Sophie – perché era sicuro fosse lei , era sicurissimo che quello fosse lo stesso Edward che la ragazza al suo fianco aveva amato- su uno scoglio, lo sguardo perso nel tramonto del mare. Indossava un abito bianco, adatto alla foggia del tempo, i capelli erano raccolti e aveva , nello sguardo, una lucentezza quasi eterea.
    Doveva ammetterlo, era un quadro che sapeva catturare non solo l’attenzione ma anche l’anima malinconica accanto a lui.
    «Penso che lei sapesse qualcosa » disse, riferendosi alla madre. Si poggiò alla porta, grattandosi la barba incolta.


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    L
    e parole di Mr. Duvall troncarono ogni altra curiosità Sophie avesse potuto avere, relegando ulteriori domande alla propria mente senza che lei ne fosse poi così dispiaciuta. Se la loro volontà era quella di non sorvolare l'argomento, allora lei non l'avrebbe mai più ripreso se non quando loro sarebbero stati pronti. O forse mai, sottostando ai loro desideri senza problemi.
    Capiva benissimo cosa voleva dire ritrovarsi a ricordare un passato doloroso, riaprire ferite, buttandoci sopra il sale del tempo che le faceva bruciare ancora di più.
    Di certo lei, proprio lei, non si sarebbe opposta piuttosto che scagliarne una manciata sopra i lembi.
    Così mostrò al signor Von Hale il suo ciondolo con quella foto antichissima di Edward, in uniforme cachi tipica dell'esercito inglese.
    Aveva servito per anni, prima di ritirarsi. Era stato meritevole, un artista che aveva scelto l'esercito poiché senza via d'uscita. L'aveva trovato e quando aveva cominciato a parlare con lui aveva capito quanto quella guerra, ciò che aveva visto, l'aveva in parte devastato, cambiandolo per sempre.
    Insieme avevano superato anche quello, però.
    «No, Mr. Von Hale. Non sono a mio agio e mi dovete scusare per questo» Soggiunse in risposta, sincera ma pacata, nient'affatto iraconda quanto, piuttosto, tesa. Sentiva il peso dei propri anni, la stranezza di quella circostanza. Nonostante ciò lo stupore stava, molto gradualmente, lasciando spazio all'abitudine, ben sapendo che non sarebbe mai stata colpa dello scienziato, quel suo stato mentale, non volontariamente. Lui non aveva alcunché da rimproverarsi mentre Sophie, purtroppo, avrebbe dovuto fare i conti solamente con sé stessa.
    Poco dopo l'uomo ricordò qualcosa che indusse il Caduto a seguirlo all'interno di quella casa.
    Si stava fidando, tutto sommato.
    Riempì i polmoni in un lungo respiro, spalancando gli occhi nocciola quando si accorse di essere proprio lei, la creatura dipinta. Cercò, febbrile, nei meandri della propria memoria il momento in cui era stata ritratta, senza ricavare granché se non stralci. E dire che quasi tutto le era rimasto, immutato, nella memoria. Quel dipinto.. Quel dipinto però continuava a sfuggirle.
    Staccò gli occhi dalla tela un attimo, capendo solo in quel momento di trovarsi in una stanza più antica delle altre, con un mobilio sicuramente di fattura differente da quella americana.
    Si avvicinò poi alle pennellate, allungando una mano guantata a queste ultime, fermandosi il tempo necessario, in una breve esitazione, per sfilarsi l'indumento affinché la propria pelle nuda e chiarissima sfiorasse i colori.
    Era la mano di Edward. L'avrebbe riconosciuta fra mille. La sua firma, era lì, come in ogni altra sua opera d'arte.
    «Non è possibile.» disse la creatura, incurante del fatto di aver scoperto il polso, dove adesso quelle cicatrici torreggiavano ben visibili. In altre circostanze non l'avrebbe mai, mai rese così vulnerabili. «E' .. sono io. Quel dipinto è frutto della mano di Edward, lo so, lo riconosco. Come fate ad averlo?» domandò Sophie, voltandosi nella sua direzione, quella volta sinceramente desiderosa di ricevere una risposta. Il suo tono era discreto, quasi dimesso, sembrava non provasse alcuna emozione.
    L'unico elemento vivo, davvero pulsante, era il suo sguardo, quasi logorato dal desiderio di conoscere.

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    La donna parve sinceramente sorpresa, quando si trovò di fronte a quel quadro: e Damien poteva capirla, dato che lui per primo trovava l’intera situazione assurda.
    Aveva visto il viso di Sophie ogni mattina, quando bussava alla porta delle stanze di sua madre ed ella lo faceva entrare per dargli un bacio e un sorriso: aveva sempre avuto un ottimo rapporto con entrambi i suoi genitori, del resto.
    Eppure, quel quadro..
    Gli occhi scuri di Ezekiel si fissarono sul polso di Sophie, che la fanciulla aveva liberato dal guanto. Vi erano delle cicatrici orribili, frutto di tagli mirati non ad ucciderla ma, evidentemente, a farle abbastanza male: torture, forse?
    Ho visto la luce più pura e il male più oscuro Aveva detto Sophie. Forse, pensò Ezekiel, quello era il segno del male.
    Come fate ad averlo? la domanda di Sophie era decisamente legittima, ma il punto era che Ezekiel non avrebbe saputo rispondere con certezza.
    Le sue, al massimo, potevano essere solo ipotesi.
    «Era di mia madre. Non so se lo abbia ricevuto in eredità o lo abbia comprato, ma so che vi era molto affezionata » rispose Ezekiel, onestamente. Prima di quella giornata, non si era mai chiesto da dove quel quadro, per la verità molto bello. «Non sapevo nemmeno che fosse stato fatto dal vostro Edward. Sono sicuro, però, che gli vorrebbe che questo fosse vostro. Potete prenderlo, se volete »
    Era vero. Cosa se ne faceva, lui, di quel quadro?
    Chissà cosa aveva saputo sua madre, sulla ragazza ritratta, chissà quali segreti quell’immagine custodiva. O forse.. Forse sua madre aveva semplicemente ricevuto il quadro in eredità da qualcuno? Probabilmente sua nonna?
    «Potrei tornare a Berlino e fare ricerche in merito al collegamento tra mia madre e quel quadro. Ricordo solo che lei non voleva mai parlarne. Diceva che la storia legata a quel quadro fosse troppo triste perché io potessi apprenderà. Poi, divenni immortale e lei morì e onestamente non ho mai più avuto curiosità in merito. Mia madre era.. molto riservata. » raccontò, grattandosi la barba.
    La sua mente si era concentrata sulle cicatrici che Sophie esibiva al polso. Non le avrebbe chiesto nulla ed era stato abbastanza ben educato per non fissare troppo a lungo: doveva dire che la curiosità lo stesse uccidendo, ma evidentemente quel capitolo, per la ragazza era altrettanto doloroso come la morte del suo amato. Prova erano i guanti che indossava.
    Le rivolse un sorriso indulgente, osservando l’eleganza dei tratti del viso della donna davanti a lui.
    «Avete una vostra casa? » chiese tranquillamente. Ecco, cambiare argomento era una buona idea, immagino. «Potrete venire qui ogni volta che vorrete. Comprendo che tra noi ci si debba dare una mano » disse.
    Come muoversi verso una persona che aveva una storia così intricata?


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    Sono sicuro, però, che gli vorrebbe che questo fosse vostro. Potete prenderlo, se volete» Sophie ascoltò le parole gentili di Damien, domandandosi perché quel dipinto fosse rimasto in quelle stanze e come ci fosse finito.
    Meditabonda, silenziosa, ombrosa com'era diventata anni fa, la creatura esitò nel dare una risposta, gli occhi che guardavano lo scienziato così simile ad Edward. Qualcosa non quadrava, in generale, ma non aveva mezzi nè possibilità di dipanare quella matassa.
    Dopo anni, secoli, di vita, aveva capito che alcune volte sarebbe stato giusto smettere di farsi domande. Ebbene, per un paio d'ore avrebbe potuto evitare di tormentarsi.
    «Vi ringrazio ma non posso accettare, davvero» concluse, pensando che sarebbe stato meglio se il dipinto fosse rimasto nel luogo a cui era sempre appartenuto. Lei, d'altronde, aveva conservato molti dei bozzetti di Edward, alcuni suoi studi che aveva compiuto su di sé e su di lei. Ricordava ancora quelli fatti sui suoi occhi o sulle mani.
    Era stata immobile per molto tempo ma mai così felice.
    «Lei era umana?» domandò quindi Sophie in merito alla madre del mutante, a cui fece quella domanda ben sapendo che in quel momento era divenuta vulnerabile. Beh, pazienza. Oramai aveva compiuto quel passo, scoprendosi, e a quel punto tenere un guanto solo sarebbe stato poco degno, forse persino maleducato a detta sua. Rigida nell'educazione e nel proprio comportamento sempre ligio ad un codice, come una istitutrice ottocentesca, aggraziata e discreta, Sophie si sfilò anche l'altro, stringendo i guanti in una mano, rivelando le cicatrici rosa scuro della propria prigionia per mano del Principe. Non le facevano più male ma le avrebbe portate sempre, come una sorta di monito. Le orlavano i polsi come dei bracciali irregolari e spessi.
    Erano magiche, ovviamente, colme di un potere talmente oscuro da dolerle solo nel caso in cui vi fossero demoni nei paraggi.
    «Vivo con le mie pupille, sono la loro istitutrice e dunque abito nella loro casa di famiglia.» erano vicini ai Fontaine, a quel che aveva capito, alla più alta vetta della società di New Orleans e forse dello stato intero. Difatti, il compenso di Sophie, pattuito, era elevatissimo.
    «Voi vivete solo?» domandò dunque dopo un attimo di esitazione, rilassando un po' le mani che aveva intrecciato l'una all'altra sino a quel momento.
    Un campanello suonò, annunciando il té in arrivo.

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    Stranamente, Sophie decise di non accettare il quadro che le stava offrendo.
    Forse, pensava che il quadro stesse bene anche lì. Ezekiel, comunque, non le avrebbe mai negato la possibilità di prenderlo, qualora Sophie avesse manifestato una volontà in tal senso.
    Lei era umana? chiese Sophie, ancora. Ezekiel sapeva che si stesse riferendo a sua madre: scosse il capo..
    «Una cacciatrice. Mio padre era uno stregone che la aiutava nelle sue caccie. Si sono conosciuti proprio mentre davano la caccia ad un vampiro particolarmente indisciplinato, o almeno così la raccontava mia madre» sorrise lo scienziato, pensando agli occhi di sua madre, brillanti ogni qualvolta il discorso veniva fuori. Ricordava anche suo padre affondare il naso in un qualche libro per nascondere il rossore.
    Vivo con le mie pupille, sono la loro istitutrice e dunque abito nella loro casa di famiglia rispose Sophie alla sua domanda. Ezekiel annuì, ricordando le due bambine che aveva visto giocare sulla spiaggia. Voi vivete solo? continuò la fanciulla e lo scienziato scosse il capo.
    «No, vivo con Sebastian. Non mi considero solo» rispose. Il maggiordomo era tutta la famiglia che gli era rimasta, dopo tutto quel tempo: i suoi genitori erano morti e aveva perso ogni contatto con suo fratello, Damien, non volendo assolutamente sconvolgere suo fratello. Ma lo aveva seguito, da lontano, scoprendo che si fosse sposato e che fosse felice. Aveva avuto anche due bambini ma, dopo la morte di suo fratello, aveva preferito smettere di seguire i suoi discendenti così da vicino.
    «Quelle cicatrici.. sono il prodotto del male assoluto, giusto?» mormorò lo scienziato, osservando i suoi polsi con un sorriso dispiaciuto. Ezekiel piegò il collo, mostrando le una delle tre cicatrici che Aurore gli aveva lasciato, quella notte così lontana. «Ho pagato un prezzo, quella notte di anni fa. Ho perso la donna che amavo e lei mi ha lasciato questo. Ho ucciso Aurore con le mie mani, giacché era stata trasformata in un vampiro e mi aveva attaccato. L’ho uccisa quando ha cercato di uccidere mio fratello minore» spiegò, alzando la manica per mostrarle la lunga cicatrice sul braccio.
    Infine alzò la maglia, mostrandole la cicatrice sulla pancia.
    Ci fu un piccolo colpetto di tosse.
    «Signori, mi dispiace interrompere» Sebastian sorrideva, quieto. «Signorina, potrei chiederle se ha qualche preferenza? Il the, come ben sa, va accompagnato da sandwiches e dolci di vario tipo. È vegetariana? Vegana?» indagò allegramente.
    Forse era consapevole del fatto che Ezekiel avesse raccontato di Aurore. Forse no. Ma era il maggiordomo perfetto per un motivo, pensò lo scienziato.


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    C
    reatura particolare, lo scienziato che le si presentava davanti.
    E, proprio lei, di stramberie ne aveva viste.
    Era stata nelle Indie Orientali quando era ancora una Guerriera della Luce, aveva viaggiato mostrando ad Edward meraviglie di luoghi ai confini del mondo, aveva conosciuto astronomi, astrologi, sciamani, creature esiliate, creature talmente strane da essere rinchiuse in circhi come attrazioni.
    Quel genere di stramberia era diversa. Coppie sovrannaturali ne aveva frequentate di rado, solitamente intrecciando la propria esistenza perché, per quanto strano sarebbe potuto sembrare, in primo luogo non ne temeva minimamente l'esistenza, avendo conosciuto di peggio, e poi perché la sua esperienza era divenuta vasta nell'uomo, gloria e distruzione di se stesso.
    Sophie annuì a quell'aneddoto ed all'affermazione successiva, muovendo attenta e discreta i propri occhi sul dipinto e poi, meno frequentemente ma più profondamente, sulla creatura che le si palesava vicino, con una nota di malinconia.
    L'antica creatura annuì, pensando che avere un vampiro accanto fosse comunque sinonimo di una compagnia oltre la morte, un'amicizia tanto salda da essere durata anni ed anni.
    «No, no infatti. Siete molto fortunato.» Commentò quindi riferendosi proprio a quell'atipica amicizia. Anche lei aveva avuto splendidi rapporti con altre creature, il primo fra tutti Alekseij, angelo che le impedì di morire durante la propria Caduta, in una bettola a Parigi, nel quartiere degli artisti. Aveva pulito le sue ferite, assistita con le cicatrici che si portava ancora dietro, raccolto le ossa che, cave, ritrovava pezzo per pezzo sul pavimento.
    Era stata la sua punizione e lui l'aveva aiutata.
    Era morto circa dieci anni dopo, ucciso da un cacciatore.
    Strane, strane circostanze ma, purtroppo, anche lui l'aveva lasciata per un posto forse migliore.
    «Quelle cicatrici.. sono il prodotto del male assoluto, giusto?» la sensazione dolce ed amara della nostalgia le si spense addosso, quando la voce di Damien giunse alle sue orecchie, così familiare.
    Pose gli occhi marroni nei suoi, annuendo con fare leggermente più distaccato, porgendogli una mano affinché la analizzasse. Sapeva che uno scienziato come lui, forse, sarebbe stato curioso di esaminare quel genere di cose un po' più da vicino e lei oramai aveva costruito una difesa tanto ferrea da non vacillare più, quando ne parlava.
    «Si, sono cicatrici di catene infernali a cui sono stata imprigionata quando Edward stava morendo» gli spiegò guardando il quadro, persa i quei momenti indelebili nella memoria. «furono forgiate da un Principe che io già allora ero troppo debole per combattere, purtroppo. Quelle, sapete, non sono fatte per gli uomini. Se un uomo, od una creatura come lei le tocca, non sentirebbe alcun dolore, forse si romperebbero, persino» Gli spiegò, stringendosi appena nelle spalle. «Sono fatte apposta per gli angeli. Dolgono e feriscono se ci si muove. Per questo le mie sono così frastagliate» Soggiunse, riempiedo il petto in un respiro più profondo, ritenendo opportuno non andare oltre.
    Forse, per farle capire di non essere anche lui stato esule dalla sofferenza, Damien cominciò a descriverle e mostrarle alcune cicatrici che ornavano il suo corpo. Marchi che avrebbe portato sempre con sé.
    Aurore, si chiamava.
    Sollevò la manica della camicia che aveva indosso, mostrandole una cicatrice evidente, seguita da una, ancor più ferina, quasi animalesca, sulla pancia.
    Sophie osservò quelle cicatrici senza pronunciarsi, senza, altresì, riuscire a distogliere lo sguardo. La sua pelle nuda le ricordava quella di Edward, la carnagione ma la stazza era leggermente diversa. Damien sembrava essere meno asciutto, un po' più scolpito.
    Sophie, notando una prima, rasserenante differenza, quasi neppure si accorse del colpetto di tosse del fidato vampiro suo amico.
    Riemerse da quel pensiero più calma, volgendo con un gesto aggraziato la sua attenzione verso di lui.
    «Mangio qualsiasi cosa, vi ringrazio. Preferisco il dolce al salato, inoltre» gli disse con un sorriso più gentile, composto, sentendosi in cuor suo quasi colpevole di aver sostato su Damien troppo a lungo.
    Lo guardò di nuovo, permettendo ai lunghi capelli castani di ondeggiare leggeri.
    «Mi dispiace, per ciò che è accaduto con la donna che avete amato. Lo capisco, bisogna andare avanti e so che è difficile, sopravvivere a certe cose» soggiunse, allontanandosi di un passo per guardare fuori, oltre quella bella tenuta. «Questo posto mi ricorda vagamente casa che avevo in campagna, poco fuori Londra, a nord, nelle brughiere.» Gli disse sincera, addolcendo un po' lo sguardo prima di raggiungere quindi la soglia della stanza, pensando che fosse tempo di uscire per raggiungere quelle tazze fumanti.

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    »Damien von Hale


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    Già, era stato molto fortunato.
    Rispetto a mille altre creature sovrannaturali, condannate alla perpetua solitudine, Ezekiel era stato fortunato. Sebastian era una buona compagnia, quando non cercava di farlo accasare.
    Chiederle di quelle cicatrici, forse, era stato indelicato: ma ci fu solo un piccolo guizzo, negli occhi di Sophie, quando gli mostrò le cicatrici e allungò il braccio verso di lui. Delicatamente, Ezekiel esaminò i segni delle ferite.
    Erano come sottilissimi bracciali che avevano lasciato un segno sulla pelle candida della ragazza. Con dita gentili, il ragazzo le percorse.
    Le parole di Sophie gli confermarono, per un certo senso, le sue supposizioni e lo scienziato annuì, grave. Non aveva mai avuto a che fare, fortunatamente, con Demoni o Angeli prima dell’Angelo Caduto che aveva davanti, ma poteva provare ad immaginare cosa avesse voluto dire, per lei.
    Non le chiese altro. Sophie era stata abbastanza gentile da rispondere alle sue domande e non volle turbarla oltre.
    L’arrivo di Sebastian, adatto ad annunciare che il the fosse pronto, fece capire ad Ezekiel che si fossero intrattenuti un bel po' di tempo. Il suo maggiordomo doveva aver già finito di preparare e apparecchiare.
    Perciò le prese nuovamente il braccio.
    Con la coda dell’occhio, colse il sorrisetto del suo maggiordomo che si voltò con veloce grazia a guardare dei quadri accanto a lui, come se stesse esaminando se la polvere ivi presente fosse da spolverare in quel momento o in un altro.
    Ezekiel sospirò. Okay, si rimangiava tutto: avrebbe decapitato e dato fuoco al suo migliore amico il prima possibile.
    «Volete concedermi l’onore di scortarvi di sotto?» sorrise, divertito. Alla fin fine, poteva dire di essere contento di quella nuova, inaspettata conoscenza: erano creature affini, che avrebbero potuto trovare conforto nella reciproca compagnia.
    E Damien non vedeva l’ora di chiederle qualcosa sulla sua vita da umana e sui posti che aveva visitato. Era sempre stato curioso e benché fosse uno scienziato, la storia gli era sempre piaciuta: la storia e l’arte, tanto era vero che si dilettava nel suonare il pianoforte e la chitarra. E a disegnare.
    Pensò ai bozzetti di Aurore chiusi in un cassetto della sua camera e pensò che Sophie non dovesse venire a saperlo. Non per ora, quantomeno: ci sarebbe stato tempo.


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    e non poter vivere senza❞
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    I
    l tocco di Damien era leggero, quasi come se non l'avesse percepito sulle cicatrici. Simile a quello di Edward ma non uguale.
    O almeno così Sophie pensava.
    Alcuni dettagli del giovane soldato che aveva amato secoli prima cominciavano a sfuggirle dalla mente, percezioni che, se non compiute più frequentemente, sarebbero svanite nel tempo, come inchiostro sulla carta.
    Ed infatti, quel genere di dettagli dati dai suoi sensi sempre vigili e superiori a quelli di un uomo, cominciavano a dissiparsi.
    Triste ma giusto.
    Mr. Sebastian annunciò che il té era pronto e, dunque, Sophie e Damien avrebbero fatto meglio a raggiungere la sala designata per berlo in tranquillità. Ripose quindi i guanti in borsa, pensando che non avrebbe dovuto più fare mistero di quelle cicatrici, avendone molte altre ad ornarle il corpo magro e sottile. Era stata una guerriera, dopotutto, benché divina. Poi era caduta e, dunque, la sua storia sarebbe stata quasi tutta impressa sulla sua pelle.
    Diede dunque il braccio all'uomo così simile ad Edward, facendosi guidare, per una volta, senza camminare da sola.
    Gustò quindi il suo té, chiacchierando cortesemente con entrambi i gentiluomini, quasi fosse stata portata in un'epoca diversa, per poi guardare l'orario.
    «Temo proprio di dover andare» soggiunse quindi, alzandosi mentre pensava al fatto che le sue pupille fossero già in sua attesa, per essere preparate per la cena. A giorni ci sarebbe stato un importante ricevimento e loro dovevano essere pronte, per dare sfoggio -assecondando il loro carattere dolce ma esuberante, felicissimo di essere al centro dell'attenzione- delle loro conoscenze.
    «Spero di rivedervi, entrambi» continuò, congedandosi prima da mr. Duvall e, successivamente, da Damien, su cui i suoi occhi non poterono che sostanre qualche attimo in più.
    «A presto!» salutò, infilando nuovamente i guanti per poi uscire dalla tenuta, avendo molto su cui meditare quella notte.

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