Di umanità

Jace-Annie

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    ❝Ama il tuo peccato
    e sarai innocente❞
    ■ 464 anni ■ Vampire ■ Single ■ Scrittore ■ lscheda

    «
    Mio signore!»
    «Il padrone è tornato prima del previsto! Qualcuno avvisi la nostra sign-» Edward scosse il capo, risoluto. Thomas era un buon servo, fedele e leale, ma Annie doveva rimanere all'oscuro del suo ritorno anticipato.
    Ancora qualche minuto, almeno.
    Era stata una conversazione sentita per caso a destare i suoi sospetti, qualche giorno prima. Edward era abituato a intrattenere amichevoli rapporti con qualsiasi nobile suo pari e andare nella casa di Robert Devereux era una di quelle ''amichevoli interazioni''. Quel giorno faceva caldo, però. Ed Edward si era assopito sotto un albero, su di un divano, stanco della lunga giornata.

    Qualcuno lo stava sventolando. In uno stato di dormiveglia, Edward si era immediatamente reso conto del fatto che ci fosse qualcuno ma non gli aveva dato granchè peso. Stava bene, era così rilassato..
    Le due dame lo avevano creduto profondamente addormentato, giacchè avevano iniziato a spettegolare.
    «Oh Jane, non è bello?»
    «Non capisco davvero come possa Annie Cecil tradirlo..»
    «Sssh, vuoi che ti senta?»
    «Vuoi che non lo sappia?»
    E no, Edward non lo sapeva davvero. Non aveva creduto, naturalmente, alle parole della donna: si trattava sempre di Annie e lui aveva sempre pensato alla moglie come ad una specie di angelo.
    Per cui si, il suo cuore si era spezzato. Ma aveva pensato che avrebbe voluto sapere se fosse vero.
    Aveva quindi architettato tutto. Fingendo una battuta di caccia era uscito a cavallo per poi tornare, da solo, poche ore dopo.
    Salì in casa, si diresse agli appartamenti della moglie. Nel salottino, trovò la sua dama di compagnia ad accoglierlo agitata ma non le prestò attenzione: semplicemente, si avvicinò alla porta e abbassò la maniglia.
    Sua moglie era sul letto, nuda, con Robert Devereux. Fu proprio Annie la prima a notarlo, ad urlare.
    Edward non disse nulla. Guardò il suo amico sorridergli e gli voltò le spalle, chiudendo la porta.
    Montò a cavallo e partì al trotto. Quella notte, dormì da un'amica della moglie
    .

    Jace si svegliò di soprassalto.
    Si rilassò immediatamente. Era nella sua casa di New Orleans: quelli che aveva sognato non erano altro che fantasmi di un passato che non sarebbero tornati.
    Si umettò le labbra, scendendo dal letto. Dormiva spesso privo di vestiti: gli piaceva la sensazione stessa di fare qualcosa che nell'epoca in cui era nato le persone avrebbero giudicato sconveniente.
    Aveva voglia di far un pò di sano movimento: per cui, indossata una maglia a maniche corte e dei pantaloncini, decise di andare al parco per correre. E si, come vampiro era già super veloce ma certe attività tanto umane gli sembravano essere un ottimo modo per non distaccarsi da ciò che restava di Edward de Vere.
    Poco e nulla, tutta una serie di rimpianti e rimorsi. Ma da qualche parte, il nobile sognatore che voleva scrivere esisteva ancora.
    Ed ecco perchè, mezz'ora dopo, si trovava al parco della città per correre con la musica sparata alle orecchie. Mantenere un passo umano era qualcosa che lo aiutava ad esercitarsi nel fingere di essere uno dei mille esseri che lo circondavano.
    Scorse una ragazzina seduta su una panchina con aria pensierosa e guardò l'orologio che aveva al polso. Due ore, stava correndo da due ore. Meglio fermarsi.
    Si avvicinò alla ragazza. Era un esserino grazioso dai lunghi capelli mogano e gli occhi scuri: i tratti del viso erano dolci, la pelle sembrava quella di una bambola di porcellana. Aveva lo sguardo triste, malinconico, ma pieno di calore.
    Si schiarì la voce, attirando la sua attenzione.
    «Scusi, posso?» chiese, indicando lo spazio di panchina libera accanto a lei.

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    «
    non fare tardi, fiorellino! Più tardi mi serve una mano per il giardino.» James Evans era sempre stato un padre affettuoso e gentile. Con lui, Annie e sua sorella Lilium si erano sempre sentite protette ed al sicuro. Sceriffo, ha sempre cercato di lasciare libere -a malincuore- le sue figlie di fare ciò che più aggradava loro, perlomeno sino a quando sua moglie non era misteriosamente sparita nel nulla.
    Annie non aveva rinunciato mai -come suo padre, d'altronde- a quella incessante ricerca, convinta che l'avrebbe sentito se sua madre fosse morta. Ciò, ovviamente e paradossalmente, dava lei ancor più preoccupazione. Come sorella più grande, si sentiva responsabile per chiunque attorno a lei, suo padre compreso. Delle volte, dato il suo particolare quanto raro potere, si era sentita persino un pericolo per gli altri, specialmente la sera prima quando aveva fatto comparire in camera sua la lama avvelenata dell'Amleto mentre dormiva solo perché le era capitato di sognarla.
    Si era stropicciata gli occhi dopo quella notte insonne, assicurando a suo padre che sarebbe tornata presto. Per piacere suo, difatti, James aveva fatto crescere rose per tutto il giardino e se ne curava sempre con lei, come particolare abitudine soltanto loro. Aveva preso i suoi tanto amati libri e si era recata al parco più vicino della città, per lei ancora nuova benché vitale ben più di Miami, luogo in cui aveva avuto casa sino a qualche anno prima.
    Aveva trovato una panchina perfetta dove potersi accomodare per leggere e pensare a nuove ricerche per sua madre, che avrebbe raggiunto sino in capo al mondo se solo avesse avuto una pista. Nell'arco di un paio d'ore sarebbe dovuta andare a prendere sua sorella da scuola per poi tornare con lei a casa, cucinare con suo padre ed aiutarlo in giardino. Una piccola routine in cui non si perdeva ed a cui si aggrappava particolarmente in quel periodo di vita in una città nuova per tutta la famiglia.
    Respirò a pieni polmoni l'aria frizzante di quella mattina tersa e recuperò dalla borsa il libro che stava leggendo, carezznadone le pagine ruvide ed appena in rilievo a causa delle lettere non più fresche di stampa. Adorava le edizioni più antiche che ancora poco sapevano di linguaggio moderno. Aveva sempre pensato di essere nata nell'epoca sbagliata, o almeno così si era sempre sentita, sin da piccola.
    Scostò i lunghissimi capelli castani dal viso, spostandoli sulla spalla, per cominciare quietamente.
    Ad un occhio esterno sarebbe potuta sembrare assorta, più piccola di quel che in realtà era realmente, forse malinconica. Si era curata ben poco delle opinioni degli sconosciuti, perché cominciare proprio in quel momento?
    Voltò pagina, nutrendosi di parole in quello stato di quietudine e serenità per quanto le fu possibile.
    «Scusi, posso?» Una voce permise alla sua mente di riemergere da quegli abissi in cui spesso si tuffava, portandola a sollevare gli occhi castano-verdi dalle lettere su una figura bionda, dalla pelle diafana e gli occhi d'un intenso celeste.
    Ann strinse appena gli occhi, accennando un sorriso.
    «Certo, prego!» Disse dunque, comprendendo che quel ragazzo era lì per sedersi dopo aver corso un po' -a quel che poté dedurre dal suo abbigliamento-. Si guardò un attimo intorno, non notando molte persone passeggiare come se fosse tarda mattinata, fino ad approdare alla propria borsa, poggiata distrattamente vicino a lei tanto da lasciare a quel poverino solo un'anticchia di spazio.
    «Ecco, scusa.» Proseguì tirandosela verso di sé per evitare che occupasse più del dovuto, allargando appena di più il proprio sorriso gentile.

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    «
    Certo, prego!» gli sorrise la giovane, in risposta, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo. Jace ricambiò il sorriso mentre quella spostava la sua borsa per fargli spazio e consentirgli di sedere.
    «Ecco, scusa.» disse poi la ragazza.
    Jace scosse il capo, sedendosi. Aveva comprato una bottiglietta d'acqua mentre correva e si sedette per bere qualche sorso, godendosi la tranquillità del luogo.
    Il profumo della ragazza lo colpì. Non era solo la dolcezza di quel sangue, che obiettivamente sembrava quasi cantare per lui, invitandolo a sfoderare i canini e affondarli nel suo collo a destabilizzarlo: c'era cioccolato, c'era il sapore dei libri vecchi e c'era una nota che gli ricordava qualcosa. O quantomeno, qualcuno. Emma.
    Emma Justice era esattamente il motivo per cui aveva lasciato di tutta fretta Miami.
    No, non era la sua amante. Era una donna che aveva trovato quasi morta e che aveva morso per salvarla. Perchè? Gli ricordava sua madre. E il fatto era che Emma Justice lo aveva anche ringraziato ma suo marito gli aveva dato la caccia.
    Promemoria; mai mettersi contro lo sceriffo
    Aveva quindi spedito Emma a Londra, affinchè la donna potesse al meglio controllare la propria sete e aveva cambiato città. Lo sceriffo Evans non aveva prove contro di lui: e ora, nel ritrovarsi accanto a quella che doveva essere Annie - certamente molto diversa dalle foto che la madre gli aveva mostrato- il vampiro si sentì di chiedersi, onestamente, cosa avesse fatto di male per meritarsi un Destino tanto crudele.
    E sarcastico, per giunta. Anzi, la formulazione corretta sarebbe stata: che pessimo umorismo.
    Ma non avrebbe fatto nulla di compromettente, ovviamente.
    «Scusa la domanda» disse quindi. Si era adattato al ''tu'' ma la rigida educazione del suo tempo non lo abbandonava affatto. Le sorrise, tranquillo. «Posso chiederti cosa stai leggendo?» chiese. «A giudicare da come sei assorta, deve essere una lettura degna di nota: pensavo di essere l'unico capace di concentrarsi anche in posti sovra-affollati come i parchi»

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    Edited by ¤---MôÔñë¥---¤ - 13/1/2017, 21:28
     
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    D
    ifficile trovare qualcuno molto loquace con cui parlare, c'era da dire.
    In effetti, benché non lo fosse sempre stata, Annie non faceva una chiacchierata spontanea con qualcuno da tempo. Il suo migliore amico, Isaac, era sempre super impegnato -probabilmente a controllare i suoi poteri con cui aveva combattuto continuamente- e lei tanto presa dalle proprie congetture da non ricordarsi neppure un'uscita fatta per puro piacere e spensieratezza, che tanto le mancava per una giovane donna della sua età, indubbiamente.
    I lughissimi capelli lambivano le pagine del libro, infrangendosi su come lucenti onde castane, spesso dispettose ad infastidirla nei momenti meno opportuni. In quel caso Annie sperò che il proprio potere, o anomalia, da lei gentilmente definita, non si manifestasse, considerata la presenza di quel tanto singolare sconosciuto.
    Sembrava un ragazzo abbastanza socievole, non inquietante come le era capitato di vedere in certe situazioni. Di primo acchito ed ad una rapida, timida occhiata, Ann pensò che forse egli avesse più anni di quanti ne dimostrasse in realtà.
    «Scusa la domanda. Posso chiederti cosa stai leggendo? A giudicare da come sei assorta, deve essere una lettura degna di nota: pensavo di essere l'unico capace di concentrarsi anche in posti sovra-affollati come i parchi»
    Lo sguardo della giovane si illuminò un po' quando la nuova voce ancora sconosciuta le domandò cosa avesse avuto fra le mani. Quando si trattava di libri, difatti, Ann era da considerarsi una vera e propria appassionata. Ci metteva cuore nella lettura tanto quanto quando poi riportava le proprie fantasie per iscritto, tanto da essere divenuta a tutti gli effetti un membro stabile del club teatrale dell'istituto, scrivendo per loro adattamenti di cui spesso non era soddisfatta.
    Abbassò dunque i grandi occhi languidi, volgendoli poi in quelli cerulei del ragazzo dalla pelle così bianca e perfettamente liscia.
    «E' un saggio sui temi degli scritti delle Sorelle Brontë» Spiegò lei, accennando un sorriso col sano sentore che sarebbe stata ritenuta immancabilmente molto noiosa. «Potrebbe sembrare un po' noioso forse ma lo trovo molto affascinante» Aggiunse dopo una breve pausa, cercando di dire con quell'affermazione quanto quel fascino riuscisse sempre a tirarla fuori dai problemi della vita quotidiana. Si posizionò più comodamente sulla panchina, inarcando leggermente la schiena, china sul libro che teneva poggiato sulle gambe.
    «Shakespeare, rapisce sempre in qualsiasi posto ci si trovi» Consigliò pacatamente lei, con una passione implicita che chiunque avrebbe potuto notare.

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    S
    in da bambino, Jace - o per meglio dire, Edward- aveva sempre amato leggere.
    I libri erano la compagnia più preziosa che un bambino obiettivamente timido quale era stato ed Edward se n'era nutrito: il suo amore per la scrittura era nato dal suo amore per la lettura.
    Quindi si, poteva capire quella ragazza, assorbita dalla lettura e talmente innamorata di essa da avere gli occhi luminosi quando Jace le chiese cosa stesse leggendo.
    «E' un saggio sui temi degli scritti delle Sorelle Brontë. Potrebbe sembrare un po' noioso forse ma lo trovo molto affascinante»
    Jace accennò un sorriso. Oh, avesse saputo che lui a sette anni leggeva greco antico e latino non avrebbe assolutamante trovato noioso un saggio del genere. Anzi.
    «Oh no, assolutamente. Le sorelle Brontë hanno segnato la letteratura» rispose quindi. «E' quindi giusto studiare al meglio le loro figure e i loro scritti. Le donne, purtroppo, hanno potuto affermarsi solo da poco in un campo così controverso quale è quello della letteratura.. E trovo assolutamente ingiusto che la massa ricordi solo Jane Austen: obiettivamente, quest'ultima è molto più semplice da capire di una scrittura più oscura quale è quella in Cime Tempestose, anche se devo riconoscere che il successo di Jane Austen sia, purtroppo-» e lo diceva con disappunto. Aveva conosciuto Jane Austen: un'anima tanto brillante e raffinata ricordata solo per la bellezza dell'anima di Mr Darcy. Ah, quale terribile smacco sarebbe stato per quella donna che, così acutamente, aveva criticato la società del tempo! La stessa società che la costringeva a scrivere con uno pseudonimo e che l'aveva messa al bivio tra l'avere una famiglia o continuare a coltivare la propria passione. «-e lo dico davvero con costrizione, dovuto ai numerosi adattamenti di Orgoglio e Pregiudizio. Trovo bello che una ragazza non si soffermi solo su Mr Darcy ma che ampli i suoi orizzonti» e lo pensava davvero. Ah aveva conosciuto creature femminili degne di grandissima stima. E pur tuttavia quella piccola misoginia che il tradimento di Annie aveva lasciato nel suo cuore non accennava a far lasciare le sue difese.
    Non che ritenesse le ragazze - o le donne in generale- inferiori. Aveva imparato a comprendere come elogiare un sesso a scapito dell'altro fosse controproducente: aveva guardato la nascita del femminismo con curiosità prima e ammirazione per quelle donne poi. Alimentare gli stereotipi non sarebbe stato affatto da lui.
    No, semplicemente, aveva spesso la tendenza a pensare che le ragazze avessero ancora quella civetteria che aveva alimentato i gesti di Annie per anni e anni senza che lui, accecato dall'amore com'era, se ne accorgesse. Più che misogino, ecco, Jace si sarebbe definito sfiduciato dall'Amore. Il che, considerando quante volte avesse cantato la bellezza di quel sentimento, suonava abbastanza ironico.
    «Non so se hai mai letto Voltando pagina di Virginia Woolf. Penso sia il più alto esempio di analisi di scrittura che mi sia mai capitato di incontrare» soggiunse docilmente Jace.
    «Shakespeare, rapisce sempre in qualsiasi posto ci si trovi lo scintillìo negli occhi di quella ragazza era aumentato e Jace se ne accorse con curiosità.
    Non aveva mai pensato di essere bravo. In effetti, Jace aveva sempre scritto per diletto personale e quel successo gli era suonato assurdo.
    Eppure..
    Eppure c'erano ragazze come quella. C'erano uomini che avevano seguito i suoi passi, donne che avevano sospirato nei suoi versi.
    Si umettò le labbra e le rivolse un sorriso dispiaciuto.
    «Lo trovo sopravvalutato, mi dispiace» disse. E non era quella, una cattiveria contro sè stesso: sebbene Jace fosse un giudice severo nei propri confronti, non era mai stato bravo nel cercare complimenti attraverso una falsa, ipocrita e fuori luogo autocommiserazione. Semplicemente, credeva davvero in ciò che diceva. C'erano state persone, dopo di lui, il cui talento era stato giustamente esaltato e Jace aveva pensato che loro meritassero che il proprio nome fosse scritto nei memoriali della Storia.
    Ma lui?
    E gli dispiaceva per quella ragazza, davvero. Gi dispiaceva per la passione che leggeva nei suoi occhi e che lo stuzzicava, doveva ammetterlo. A chi non piacevano, in fondo, i complimenti?


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    I
    l discorso divenne inequivocabilmente più elevato. Annie, quel giorno, non si sarebbe aspettata -proprio mai al mondo- di poter intavolare una discussione danto costruita e ricca senza neppure essere in ambito scolastico ed accademico dove, persino lì, quel genere di parole erano decisamente relative e ben poco spese.
    Volse se stessa maggiormente verso il giovane, ascoltando le sue parole con interesse misurato, come se fosse intenta a ponderare ogni sua parola per darle il giusto valore. Il lessico le parve competente, come se anche lui avesse letto moltissimo e studiato ciò di cui stava parlando, senza parole in più o spese tanto per essere dette. Cominciò ad essere intrigata dalla conversazione ed in grado di parlare con qualcuno che mai le aveva tenuto testa senza farla sentire noiosa o poco interessata al resto del mondo. Lei aveva sempre vissuto per l'arte e parlarne con un estraneo non l'avrebbe mai pensato.
    Continuò ad ascoltare, scostando i lunghissimi capelli per guardarlo, annuendo di tanto in tanto mentre il sole si faceva più alto nel parco che divenne più popolato grazie all'avanzare del tempo e lei raccoglieva una degna risposta.
    «Ho letto quasi tutti gli scritti di Jane Austen. Incredibilmente coraggiosa per il tempo ed innovativa» Più volte, sua sorella, le aveva detto che sarebbe stata eccezionale a vivere in quel tempo o, poco più avanti, in quello delle sorelle Bronte. "Bah, non sei fatta per vivere in quest'epoca" ripeteva spesso, ricevendo dolci sorrisi in cambio ed un "hai proprio ragione" successivo.
    Ann si sporse appena, come a volergli rivelare un segreto, senza però invadere la sua sfera personale, in un movimento gentile ed incosapevolmente aggraziato. «Sai, Mr. Darcy non l'ho mai ben voluto. La miglior coppia in quel libro, a mio parere, era quella di Jane e Charles, sono sempre stati i miei preferiti.» Concluse, con la ponderata serietà nel tono di voce degno di una piccola nobile, umile nel giudizio e rispettosa per l'argomento del discorso.
    «Amo Virginia Woolf, si» asserì con assoluta certezza, giungendo poi le mani in grembo, che intrecciò mentre ascoltava il giudizio repentino del giovane nei confronti di Shakespeare, nuovamente incuriosita.
    «E come mai, se posso?» Domandò, ancora più intrigata proprio dalla diversità della sua presa di posizione.
    Se fossero stati in un giardino ottocentesco, di certo non avrebbero stonato, per il tenore della conversazione, brillante e degna di una coppia d'altra epoca.

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    ■ 464 anni ■ Vampire ■ Single ■ Scrittore ■ scheda

    G
    li bastava allargare le narici, per cogliere il profumo di Annie.
    Era dolce, sapeva di biscotti e pulito, di carta. Un odore che gli ricordava gli anni perduti della sua innocente umanità, quando ancora credeva nell'amore che sua moglie gli mostrava ogni giorno.
    Gli occhi della fanciulla si posarono su di lui, scrutandolo con curiosità e sopresa. E Jace poteva comprenderla, in fondo: aveva osservato gli esseri umani e, ormai, aveva compreso che l'amore genuino per la letteratura si era perso, morendo con gli ultimi grandi scrittori del secolo precedente a quello in cui stavano vivendo.
    Annie somigliava ad Emma. Erano entrambe incredibilmente coraggiose e preziose, in un certo senso.
    Lei gli disse che aveva letto tutti gli scritti di Jane Austen e che, per il suo tempo, era stata una scrittrice incredibilmente coraggiosa e innovativa. Poi, aggiunse, Darcy non le era mai piaciuto ma gli aveva sempre preferito Charles e che - quest'ultimo- con Jane, faceva la miglior coppia del libro.
    Quasi gli veniva da piangere per il sollievo. Aveva trovato una ragazza con cervello. Deo gratias, doveva dirlo.
    «Sai cosa mi da fastidio? Il fatto che nessuno capisca, quasi, che non sono le storie d'amore, il punto. Il punto è che le donne e gli uomini venivano costretti a sposarsi e..» pensò ad Anne e sorrise, amaro. Quella donna era stata l'origine della sua caduta: non il morso che Jace poteva aver vissuto come una benedizione, in quanto lo aveva aiutato a fuggire dalla famiglia Cecil, non quello. Lei. Lei che aveva detto di amarlo e si era fatta un amante e gli aveva dato una figlia che non era sua. Ecco perchè non riusciva a guardare quella bambina. Aveva gli occhi di un altro sul visino di sua moglie. «Non importa, credo» mormorò infine.
    Era un terreno pericoloso in cui addentrarsi.
    Annie gli confermò di amare Virgina Woolf. Poi, quando lui le disse che trovava Shakespeare sopravvalutato, lei lo guardò incuriosita.
    Senza giudizio, senza astio. Era solo.. curiosa.
    Per un momento, Jace se la immaginò bene come una donna del suo tempo. Composta, ben educata.. Si, Emma e suo merito avevano fatto un ottimo lavoro, con lei.
    Chissà come era la seconda figlia..
    «Temo che la gente legga in lui molto più di quanto abbia scritto» mormorò Jace. Fece una smorfia. «Prendi Romeo e Giulietta. Temo.. Che fosse solo la storia di un amore fallito. E che lui per primo avesse consapevolezza che la società che lo circondava fosse una menzogna, pronta a scagliarsi su ciò che temevano, per poi piangerne le conseguenze quando la verità andava alla luce.» scrollò il capo. «Perdonami, straparlo» le sorrise, cordiale.


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    I
    l giovane dai capelli color grano la osservò con una saggezza, profondità, atipica per l'età che dimostrava. Forse venti, venticinque anni. Forse meno.
    Non avrebbe saputo dirlo con esattezza. Fatto sta che le sue parole colpirono la giovane mutante senza che lei potesse farne a meno. Come avrebbe potuto fare lui a parlare con così tanta cognizione di causa di quei tempi andati, quasi come se ve ne facesse parte?
    Ann inclinò di poco il capo verso il cielo, ascoltando la sua voce senza deconcentrarsi, il minimo necessario per rincorrere le ombre delle fornde sopra di lei.
    «Si beh, l'epoca non era certamente permissiva per quanto riguarda le relazioni, questo è indubbio» Asserì la giovane donna, senza però spostare lo sguardo dalle fronde, non ancora, perlomeno. Si stava concedendo del tempo per pensare, per capire se di quel giovane avrebbe potuto fidarsi.
    Da quando sua madre era scomparsa aveva avuto timore ad approcciarsi agli altri, perlomeno più del solito, temendo sempre che questi avessero potuto trasformarsi in creature orribili pronte a portarla via dalla propria famiglia.
    Timori inconsci, forse.
    O forse no?

    Quando però il giovane continuo a discorrere con lei su Shakespeare, il suo modo di scrivere, la sua interpretazione così personale di Romeo e Giulietta, Annie non poté che fissare i propri occhi nei suoi, interessata. Estremamente.
    Intrecciò le piccole dita sottili in grembo, sollevando poi un ginocchio a cui vi appoggiò il mento arrotondato.
    «Hm, per quanto trovi così interessante la tua interpretazione» Cominciò lei, quieta. «Temo di dover essere in disaccordo. Per me Romeo e Giulietta è l'apoteosi, dopo Cime Tempestose, dell'amore oltre la morte, oltre ogni qualsiasi ostacolo» Concluse la giovane, zittendosi poco dopo nel timore d'essere stata sin troppo noiosa e prolissa. Avrebbe dovuto smetterla e parlare del pop, magari, di serie tv o qualcos'altro che non avrebbe fatto scappare la gente a gambe levate.
    Anche perché la letteratura smuoveva quei poteri che tanto cautamente lei teneva nascosti per evitare spiacevoli conseguenze.
    «Sei...inglese?» Domandò infine, decidendosi a cambiare argomento dopo aver notato il suo accento delizioso, ben diverso da quello americano a cui era solitamente abituata.

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    E
    ra indubbio che lui e la giovane avessero visioni opposte: eppure Jace ricordava ancora che anche lui fosse stato così ingenuo e innocente. Povero piccolo essere umano che era stato.
    Quando gli chiese se fosse inglese, quasi gli venne da ridere. Beh, era ora di presentarsi: chissà se Annie conosceva il suo ruolo nelle indagini condotte dallo sceriffo Evans.
    «Inglese, si. Sono dell'Essex» rispose con un sorriso. Anche se nei secoli era diventato bravissimo nel camuffare il proprio accento, cambiarlo, modificarlo, a seconda dell'identità da impersonare: non sarebbe sopravvissuto ai cacciatori per tutto quel tempo se non fosse stato abbastanza bravo a nascondersi. Inoltre Jace era un attore, oltre che uno scrittore: la dizione e il linguaggio erano parti della sua attività che certamente poteva solo mirare ad affinare al meglio.
    «Ma hai ragione, sono stato un gran maleducato» le prese una mano, eseguendo un perfetto baciamano. Un gesto forse di altri tempi, ma a Jace piaceva pensare che la cavalleria e la buona educazione di un tempo non fossero del tutto morte. «Jonathan Christopher Sebastian Morgenstern-Verlac, ma puoi chiamarmi Jace» le sorrise, le labbra sulla sua pelle e gli occhi nei suoi, un continuo, malizioso, stuzzicare l'ignara umana.
    Aveva scelto i propri nomi con l'accuratezza propria di uno scrittore che si appresta a fare del proprio personaggio una persona in carne ed ossa affinchè i suoi lettori possano innamorarsene.
    Ma non era quella, la sua recita? Fingersi costantemente qualcuno che non era. Mettere il proprio io, o almeno, una parte di ciò che era rimasto della sua umanità in quella facciata educata e sorridente.
    Jace aveva smesso di essere umano da molto prima della sua trasformazione, da quando il suo cuore era stato frantumato in mille pezzi dalla moglie. Oh, aveva amato quella donna sopra ogni cosa!
    E ora la odiava con lo stesso ardore. La odiava e si augurava che, se davvero ci fosse stato un Inferno, che lei bruciasse per sempre.
    «Tu come ti chiami?» chiese quindi. Anche se lo sapeva bene, ma magari non era proprio il caso di dirlo a lei.
    Sua madre era sempre stata così pronta a tessere le lodi delle sue figlie..


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    Annie EvangelineEvans

    ❝E' il tuo dono vedere la la bellezza e l'orrore delle cose
    di tutti i giorni.❞
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    A
    nne quasi sentiva di non essere appartenente di quell'epoca, come se vi fosse un qualche sbaglio. Era silenziosa, le piaceva la solitudine, la Grazia dell'arte. Forse in epoche diferrenti sarebbe sembrata una strega, una matta, condannata in quanto erudita. Nonostante ciò si guardò attorno, scacciando quel pensiero prima possibile affinché la propria mente e, dunque, anche i propri poteri, venissero a galla. Capitava spesso che confondesse i sogni con deliri dovuti principalmente alla sua mutazione genetica.
    Aveva visto Lady Machbeth e la sua follia nella sua stanza, le tre streghe, minacciose e nere, oscure come demoni camminarle attorno. Aveva visto Titania, aveva visto le tormente e le burrasche delle brughiere inglesi -come le immaginava lei- e spesso, quel genere di sogni ad occhi aperti, le erano sembrati più orribili che positivi.
    Oramai quasi non gridava più, quando le capitava.
    «Ma hai ragione, sono stato un gran maleducato» Disse il giovane, affusolato e sinuoso come un gatto. Vide la propria piccola e bianchissima mano fra le sue, volgendo gli occhi, in un misto di stupore e diffidenza, nei suoi, in quel momento socchiusi.
    «Jonathan Christopher Sebastian Morgenstern-Verlac, ma puoi chiamarmi Jace» un lunghissimo nome! Anne chinò leggermente il capo, scoprendo da un lato il lungo collo bianchissimo, dalla pelle quasi trasparente per quanto pallida. Accennò un sorriso prima che questo si spegnesse d'improvviso.
    Quel nome non le era nuovo, anzi! Lo aveva letto, lo aveva letto ma dove?
    Scostò la propria mano con gentilezza per poi passarla rapidamente sulla fronte. Dove? Dove?
    Poi, finalmente, illuminazione. Negli archivi polverosi della propria memoria, il fascicolo di suo padre le saltò alla mente.
    «Jace Verlac!» Ribadì sommessamente, trafiggendo i suoi occhi con i propri, schiudendo di poco le labbra per la sorpresa. «Mia madre..» Aggiunse in un soffio che restò impigliato fra loro. «Sono Anne Evans. Mio padre ha scritto il suo nome su un fascicolo, lo sceriffo Evans. Lo ricordi?» domandò dunque, scavallando le gambe per poi guardarlo attenta ed acuta, pronta a qualsiasi reazione. Gli avrebbe detto qualcosa od era stato solo un passante che in tutta la vicenda della scomparsa di sua madre non aveva avuto quasi nulla a che fare?

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    Jace Verlac

    ❝Ama il tuo peccato
    e sarai innocente❞
    ■ 464 anni ■ Vampire ■ Single ■ Scrittore ■ scheda

    D
    i occhi, nella propria lunga esistenza, Jace ne aveva incontrati parecchi. Pochissimi, però, erano stati quelli capaci di fissarsi in modo indelebile nella sua mente.
    Emma Justice-Evans aveva gli occhi più penetranti che Jace avesse mai avuto modo di ammirare. Occhi che studiavano, capivano e che sapevano inchiodarti sul posto; e proprio quegli occhi, simili a quelli di Mary, la sua adoratissima sorella, lo avevano convinto a morderla e salvarla.
    E Annie era come sua madre.
    Jace osservò quegli occhi che lo squadravano alla ricerca di qualcosa che non avrebbe mai potuto dirle, a meno di rischiare le vite dei componenti della famiglia di Emma: aveva come l'idea che qualcosa, nel buio si stesse muovendo. Naturalmente, non conosceva i dettagli e non sapeva nemmeno come definire il pericolo o se ci fosse - effettivamente- qualcosa da temere.
    Ma, il fatto era che non poteva rischiare.
    «Jace Verlac! Mia madre..»
    Si, Emma gli aveva sempre ribadito che - delle sue figlie- quella da temere fosse proprio Ann: perchè se Lilium è spontanea e innocente, diceva, Annie sa osservare e sa dove cercare.
    Ma Jace era un ottimo attore. Per cui, sfoderò la sua espressione più educatamente perplessa mentre la osservava: espressione che egli mutò, trasformandola in una esasperata.
    «Sono Anne Evans. Mio padre ha scritto il suo nome su un fascicolo, lo sceriffo Evans. Lo ricordi?»
    Era stato moderatamente divertito dal modo in cui lo sceriffo Evans aveva cercato di incastrarlo. La mancanza di un corpo aveva reso difficile far credere che Emma fosse morta: mai mettersi contro un uomo innamorato, Jace lo sapeva. Eppure lo aveva stuzzicato, forte del fatto che lo sceriffo non avesse prove schiaccianti contro di lui.
    Quasi gli aveva fatto pena, allora. Quasi. Jace era abbastanza razionale da sapere di avere fatto la scelta giusta, per quanto quello avesse significato far male al marito e alle figlie della povera Emma.
    «Come dimenticare» rispose, sarcastico. Quella fu la cosa più sincera che potesse dirle, in argomento. «Otto ore di interrogatorio sono difficili da scordare. Beh, mi dispiace sinceramente per la vostra perdita» aggiunse, calmo. Studiò il volto di Annie.
    Chissà perchè, aveva idea che avrebbe faticato parecchio in quella conversazione.


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    Annie EvangelineEvans

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    N
    ella scrittura era sempre stata se stessa e nessun altro. Anne Evans, Annie per molti, era adoratrice della solitudine. Con le parole doveva cavarsela da sola e, nel bene e nel male, scrivere l'aveva aiutata a gestire la propria mutazione che aveva considerato pericolosa.
    Guardò Jace Verlac con un misto di trepidante curiosità e continuo, strano, senso di cautela, tipico di quando si osservano delle piante meravigliose oltre ogni dove ma che, si sa bene, queste siano velenosissime.
    L'espressione del giovane era mutata quando Ann aveva citato suo padre. Sapeva che lui avrebbe avuto qualcosa a che fare con tutta la questione già solo captando quel cambio di tratti: perché era accaduto?
    Sembrava vagamente agitato o forse combattuto. Probabilmente, tanto quanto lei, egli non si fidava e ciò la allarmò. Sapeva qualcosa. Ne era sicura.
    «Come dimenticare. Otto ore di interrogatorio sono difficili da scordare. Beh, mi dispiace sinceramente per la vostra perdita» soggiunse quindi ed Anne, di punto in bianco, dopo le sue parole si sentì quasi presa in giro. Come avrebbe potuto dire una cosa del genere senza essere sceso neppure un po' nei dettagli. Certo che era una questione singolare!
    Spostò lo sguardo sul parco, sempre così mite e quieto, con alcuni a fare jogging, incuranti, giustamente, della realtà circostante la ragazza che sentiva quasi squagliarsi sotto di lei.
    Una persona normale avrebbe detto qualcosa tipo "Ma certo! Ricordo tuo padre, abbiamo parlato." O qualcosa del genere, immaginava. E invece lui era andato subito al sodo dopo otto ore di interrogatorio. Non aveva proprio cavato un ragno dal buco?
    Aggrottò le sopracciglia folte e definite.
    «Dopo otto ore è tutto ciò che hai da dire?» domandò schietta senza riuscire a contenersi. Inclinò un po' il viso per cercare di capire, a quel punto, se Jace Verlac fosse pericoloso. Probabilmente, dall'alto dei propri ingestibili poteri, Anne stava sperando in una qualche protezione ma la propria mente, guarda caso in quel momento, le parve quasi assopita.
    «Qualcosa devi sapere, qualche dettaglio. Mio padre non riferisce mai nulla di quegli incontri ma io sono forte abbastanza. Dunque dimmi.» Concluse, raddrizzando la schiena con una certa dose di coraggio spinto soltanto dalla brama di conoscenza riguardo il destino di una persona per lei vitale che era però scomparsa. Per Emma, Anne avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche gettarsi nell'inferno se fosse stato necessario.

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    Jace Verlac

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    Q
    uella ragazzina lo irritava e lo affascinava al tempo stesso.
    Jace non avrebbe saputo descrivere le sensazioni che lo stavano attraversando se non quella contraddizione in termini che era propria del carme 85 del poeta Catullo. Odi et amo aveva scritto ed era così che egli si sentiva di fronte Annie Evans.
    Aveva un tono secco, irritato, ma non perdeva la propria educazione e cortesia. Pericolosa, era pericolosa: Jace avrebbe dovuto allontanarsi con una scusa, magari darle della seccatrice e tagliare ogni tipo di rapporto.
    Ma..
    Da una parte, egli sapeva che quello non avrebbe frenato Annie dal tormentarlo. E dall’altra, quella piccola umana lo divertiva, cosa che non succedeva da secoli: l’immortalità aveva come prezzo la noia costante. Jace aveva visto, viaggiato, amato, vissuto mille vite, mille volti, mille anime: ma prima o poi, tutto lo stancava.
    Annie Evans, piccola umana ostinata, no. E si, razionalmente egli sapeva che quella ragazza sarebbe stata al sicuro a mille chilometri da lui, ma non riusciva a mettere fine alla conversazione, come sarebbe stato giusto.
    Perché aveva l’idea che ella avesse visto altro, sotto quella maschera di perfetta indifferenza che Jace portava con la disinvoltura di chi aveva recitato ruoli diversi. Annie, probabilmente, aveva capito che c’era qualcosa, sotto quella bellezza angelica che accompagnava il vampiro da secoli.
    Eppure rimaneva li, sfidando il pericolo. Piccola sciocca, amabile umana.
    «Non capisco cosa tu stia cercando di insinuare » rispose con tranquillità. Edward, la parte sensibile della sua anima, era morta da tempo: tradito, calpestato, dall’unica donna che avesse mai amato.
    Ah, povera Annie. Così ingenua dei pericoli che l’amore comporta!
    «Tuo padre mi ha torchiato per otto ore, il che mi ha irritato parecchio. Insomma, io nemmeno conoscevo tua madre: che motivo avrei avuto di farla sparire? Mi dispiace, umanamente parlando, per la perdita che ha segnato la vostra famiglia ma la mia partecipazione alla cosa finisce lì » forse era stato arrogante, ma sperò che il muro che aveva idealmente innalzato la costringesse ad andarsene e lasciarlo solo.
    Era una bella anima, quella che gli sedeva accanto ma Jace era il pericolo del sangue e le brave ragazze, si sa, non vestono mai di rosso scarlatto. O almeno, così diceva sua madre: Jace pensava che fosse una somma sciocchezza, giudicare qualcuno dal colore dei suoi vestiti. A sua moglie, per esempio, era sempre piaciuto l’azzurro cielo, ma era stata la peggiore delle donne con cui avesse avuto a che fare.
    «Quella sera sono andato con la mia manager in un locale li vicino. Era uscito il mio libro e volevamo festeggiare: ci siamo divisi e ho preso una strada diversa dal solito » rispose, fingendosi sommariamente irritato dall’insistenza della ragazza. In realtà era si andato con la sua manager a festeggiare, ma era stato attratto – sulla via del ritorno- dalle urla di Emma. «Avevo voglia di passeggiare. C’era una splendida luna, quella sera e volevo approfittarne. Quando sono arrivato di fronte alla banca, ho trovato per terra la borsa di tua madre con i suoi documenti e sono andato alla stazione di polizia più vicina. Ma la borsa era macchiata di sangue, cosi tuo padre ha pensato che l’avessi uccisa, nascosto il cadavere e avuto il tempo di portare la borsa alla polizia. Comunque, dato che la telecamera era stata distrutta e che io non avrei avuto alcun interesse nell’uccidere una sconosciuta, è stato costretto a lasciarmi andare. Soddisfatta, adesso, Nora Charles?» mormorò sarcastico.
    Nora Charles e il marito Nick erano personaggi di un romanzo (per meglio dire, una serie di romanzi) del 1984 che a Jace erano piaciuti molto: Nora era bella, di buona famiglia, arguta e intelligente. Un po' come Annie, insomma.
    Ed esattamente come Annie, sprezzante del pericolo che – con tanto di freccette colorate- le si presentava davanti. Jace non sapeva se compartirla o apprezzare la sua intraprendenza e il suo coraggio.
    Nel dubbio, avrebbe continuato a studiare quella piccola detective.


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    Anne EvangelineEvans

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    Q
    uel Jace Verlac pensava di prendersi gioco di lei. Anne lo stava osservando con intensa insistenza, come se anche solo col proprio penetrante sguardo ella sarebbe stata in grado di fermarlo lì e farsi raccontare ogni cosa.
    Quello era il momento in cui cercava di fiutare la verità esattamente come suo padre, a cui somigliava moltissimo. Il carattere mite, la dolcezza e l'amore delle arti di sua madre, la testardaggine caparbia di ssuo padre.
    Raccolse dunque la borsa a sé, riponendo il libro che stava leggendo per poi metterla sotto la spalla, ascoltando i ragazzo esclusivamente. Incauto, probabilmente, ma dopotutto avrebbe potuto evocare il proprio potere, spaventarlo a morte e fuggire, no?
    Mai come allora, Ann si era sentita sicura delle proprie capacità. Aveva visto orrori che la sua mente era stata in grado di produrre, dalla fantasia sin troppo attiva, come una specie di particolare malata, delle volte tanto spaventata da non voler uscire dalla propria stanza.
    In quel momento, però, aveva visto che quel Jace avrebbe potuto far fuoriuscire una sorta di difesa da lei che avrebbe saputo sicuramente gestire, ne era sicura. E dopotutto, quella sua mutazione -ben diversa da quella di suo padre che invidiava tantissimo-, era tutta questione di psicologia.
    Così Jace cominciò a raccontare tutto, spiccando -secondo Anne- di un dono d'oratoria e sintesi non da poco. Non si era lasciato prendere dalle emozioni, aveva raccontato tutto con una padronanza di linguaggio invidiabile a chiunque della sua età.
    C'era qualcosa in più, in lui.
    Ma la borsa era macchiata di sangue, cosi tuo padre ha pensato che l’avessi uccisa, nascosto il cadavere e avuto il tempo di portare la borsa alla polizia.
    Sangue.
    Era stata ferita, quantomeno ferita! E se le fosse successo qualcosa di peggio? Se fosse stata ghermita da qualcuno di più pericoloso? Qualche creatura? Qualche criminale?
    Ann portò una mano affusolata alla guancia soffice, premendovela leggermente mentre pensava alla reale eventualità che sua madre fosse morta.
    Oppure, se vi fossero state cose peggiori della morte? Se vi fossero state torture od abusi? Lei non avrebbe potuto sopportarlo.
    «E non hai visto niente che avrebbe potuto far capire dove è stata portata?» domandò lei, abbracciando, d'istinto, la pista di un rapimento. «Lei non aveva nemici» Continuò, appigliandosi ad ognuna delle parole del ragazzo pur di venirne a capo. Sollevò gli occhi nei suoi, adesso meno sicuri e più preoccupati, carezzando l'idea di continuare ad indagare per conto proprio dato che suo padre non le avrebbe mai permesso di muoversi, purtroppo, affidandosi solo al suo istinto senza sentire ragioni.
    «Tu non l'hai vista?» Domandò quindi, tormentandosi le mani avendo comunque assorbito due ulteriori notizie: lui doveva essere uno scrittore famoso e, fortuna avrebbe voluto, che uno dei suoi romanzi, certamente, Anne doveva possederlo, magari regalato da sua zia Faith che soleva portarle sempre qualcosa da leggere quando tornava a trovarli.

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    Jace Verlac

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    J
    ace osservò quell’imprudente ragazzina con un misto di divertimento e rassegnazione ben mascherati sotto l’espressione gelida. Dio, le aveva descritto lo scenario di un film horror e lei continuava a guardarlo come se fossero stati una coppia di giovani detective: capiva che Emma avesse lasciato a sua figlia qualcosa come un’enorme, ingombrante testardaggine. Chissà com’era l’altra ragazzina.
    Ma alla fine, cosa gli importava? Non era come se avesse dovuto prenderci un the, con quella famiglia di svitati cronici: anzi, si sorprese nel non notare lo sceriffo Evans saltare fuori da un cespuglio urlando “Banzai” mentre brandina una katana. Sarebbe stato uno spettacolo imperdibile.
    Ma che pensieri aveva in mente, insomma?
    Sospirò, scuotendo la testa.
    «Che domanda sarebbe, scusa? Se avessi visto qualcosa sarei un rapitore o non sarei qui a parlare con te » rispose, sarcastico. Si alzò: quella conversazione era andata troppo oltre è, accidenti a lui, aveva giurato ad Emma che avrebbe protetto la sua famiglia, non di trascinare la maggiore delle sue figlie in quello che era un vero e proprio inferno!
    Non sapeva chi avesse attaccato Emma, quella notte. Jace aveva messo in fuga l’assalitore della donna, prima di chinarsi a controllare le sue condizioni: lei stessa non aveva saputo – o voluto?- dirgli chi mai avesse potuto avere interesse nel metterla a tacere per sempre. E del resto, le indagini di Jace non lo avevano portato molto lontano.
    «È meglio che vada » aggiunse. Un po' gli dispiaceva, fare lo stronzo, perché comprendeva che quella non fosse altro che una figlia disperata per il destino della propria madre: ma chiunque aveva attaccato Emma, riducendola in fin di vita, era ancora lì fuori e si, sarebbe potuto tornare all’attacco sapendo che la donna fosse certamente viva. «E in ogni caso, ti consiglio di starne fuori. Sei una ragazzina, non una poliziotta » Si, era una mutante ma non aveva la minima idea di cosa ci fosse, lì fuori. Certamente, Emma avrebbe preferito avere la propria figlia viva e Jace preferiva risparmiarsi il rimorso di aver contribuito alla morte di una povera anima innocente. «Io, per conto mio, ho chiuso con questa storia » aggiunse, scrollando il capo.
    Ah se il buon vecchio Kit Marlowe avesse potuto vederlo! Lo avrebbe riempito di sarcastici complimenti sul miglioramento delle sue doti recitative, senza dubbio: gli mancava, avere al proprio fianco qualcuno capace di tenergli testa, come il suo vecchio amico sapeva fare.

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